domenica 17 settembre 2017

Fatto porno cucina

Beato te che sei un linguista – mi dice Lara accendendosi una sigaretta. Siamo in un tavolo all’aperto, lei ha finito la sua Coca Cola ma io sono ancora a metà della mia birra rossa. Le rispondo che no, non sono un linguista; intanto perché se mai sarei un dialettologo, e poi perché non ho un ruolo all’università e inoltre non so l’inglese abbastanza per leggere testi che mi mettano in grado di padroneggiare un metodo scientifico aggiornato…
Ma Lara sbadiglia, scuote la testa in segno di disapprovazione e tira una lunga boccata di fumo. C’è qualcosa di molto sensuale in questo aspirare la sigaretta. Così sorrido e sto zitto. Ci vediamo una volta ogni…boh? due anni forse, ma so che quando fa così deve raccontarmi qualcosa. Bevo una sorsata di birra e mi metto in ascolto.

Lara ha un papà molto ma molto vecchio, che vive in un paese delle valli. Lei abita qua in pianura, deve stare dietro ai figli adolescenti, ha il suo lavoro. Non può guardare papà. E poi, se anche potesse farlo, sarebbe troppo stancante. Non parla quasi più, il vecchio valligiano. Assente, lo sguardo perso nel vuoto, e nemmeno un sorriso. Guarda attonito un mondo che vede solo lui, e che non lo diverte.
Cambia badante abbastanza spesso. Si stancano del posto più che del vecchio. Non tutte resistono, lassù. Gli occhi del vecchio poi sono gelidi e azzurri, il paesaggio esterno è gelido e pietroso, ben presto bianco per la troppa neve. Nella frazione del vecchio non c’è nemmeno un negozio. Solo una chiesa, perlopiù chiusa.

Le badanti ucraine hanno gettato la spugna per prime. Irina si chiamava l’ultima. Dopo di lei nessuna ucraina ha più voluto provare a vivere  con il padre di Lara. Dicevano  - addirittura - che la casa era stregata. Balle, ovviamente. Ma un giorno in cucina c’era un topo morto. Un’altra volta si sentiva bussare alla porta esterna e poi alla fine non c’era nessuno. Una volta si è sparso il sale. Un’altra volta si è rotto uno specchio. E così anche Irina se n’è andata, dopo che già se n’erano scappate via Olga, Svetlana e Paraskivi.

Sapessi che stress – mi dice Lara. Io ancora non ho capito cosa c’entri la linguistica in tutto questo, ma intanto ho finito la birra e Lara mi chiede se ne voglio ancora una. Dire di no sarebbe come confessare che non mi interessa il suo racconto. Quindi faccio cenno di sì con la testa e intanto le scrocco anche una sigaretta. Soddisfatta, Lara ordina due birre e ricomincia a raccontare.

Dopo le ucraine sono arrivate le romene. Anche la mia «badante giusta», di cui ho così scoperto la nazionalità. Sorrido a Lara. Che non ricambia. Bevo la birra, fumo e sto zitto, con un’espressione neutra. Tre romene, mi dice Lara, si sono succedute a guardare suo papà. Tutte se ne sono andate perché dicevano che nella casa del vecchio c’erano le voci dei morti. L’ultima, che si chiamava Sofia, prima di andarsene aveva riempito la casa di crocifissi, icone russe e rosari greci. Tutto si era rivelato inutile.
«Celai mortii che vorbescono» aveva esclamato posando le sue magre valigie sull’ultimo gradino della scala in pietra che conduce dalla casa verso la strada. Poi aveva ripreso le valigie e si era incamminata verso il capoluogo comunale. Tre chilometri fra i rupi e boschi. Lara si era rifiutata di accompagnarla.

Due giorni dopo  - riprende Lara – è arrivata una filippina appena trasferitasi in Italia. E qui Lara mi guarda e mi dice: hai presente, no? Faccio cenno di sì con la testa. Mia mamma ha avuto diverse ottime badanti filippine e…
«Beato te che sei un professore di lingue». Ecco, vorrei ribattere che no, io non sono un professore di lingue ma sto zitto, bevo la birra e chiedo un’altra sigaretta. Lara sorride. E racconta.

Racconta che la signora filippina si chiama Consuelo. Bene, bel nome annuisco io. E che deve venire da una zona delle Filippine dove non pronunciano le parole come da noi. Lo sapevo, io, questo? E beh sì, le dico – ma non capisco che cosa vuol dire, mica i filippini parlano italiano, è ovvio che non pronuncino… Ma niente, devo tacere. Lara si sta già annoiando delle mie domande e vuole raccontare lei.

Consuelo – racconta – non ha detto niente di streghe, vampiri, morti viventi e stregonerie varie. Si è subito ambientata a casa del vecchio, sorridendo. Ogni giorno Lara andava a vedere com’era la storia. Ogni giorno la trovava in casa, intenta a pulire per terra, stendere i panni, stirare, fare l’orto, tagliuzzare verdura per la minestra serale. E sorridere. Ma il vecchio no, non sembrava trovarci nulla da ridere in questa presenza asiatica.
«Non capisco proprio cosa rida a fare quella cretina cinese» era stato l’unico commento che Lara era riuscita a strappargli.

Finché un giorno Lara è arrivata lassù nel tardo pomeriggio e ha trovato suo padre seduto su una sedia davanti a casa. Ammirava il panorama della valle, le montagne alte con la punta ricoperta di neve. Forse seguiva il  volo delle poiane. Ma soprattutto – e Lara non credeva ai suoi occhi – il vecchio sorrideva.
Lara lo ha salutato. Lui ha smesso di sorridere. Non sia mai farsi vedere contento da una figlia o da un figlio. Però si percepiva che era soddisfatto. Le ha anche chiesto una sigaretta, che lei non gli ha dato ovviamente.
Così è stata costretta ad entrare in casa per non sentire gli insulti. Appena dentro, ha trovato Consuelo che sorrideva più del solito, anche lei. In mano uno strofinaccio, la mano sullo sportello del forno. Sul tavolo della cucina c’era un tablet aperto.

«Beh – ha  chiesto Mara – si può sapere cos’è successo?».
Consuelo si è stretta nelle spalle. «Oggi tutto porno».
Porno? Gli occhi di Mara si sono subito diretti sul tablet. Un’innocua pagina di Google. Ma chissà guardando la cronologia che cosa sarebbe emerso…
«Ma come, porno? In che senso porno?».
Consuelo ha squadernato un sorriso da pubblicità. «Oggi fatto porno in cucina con segnor nonno. Segnor nonno lui contento».
Lara è uscita dalla casa. Uscendo ha visto il padre che guardava la parte alta della valle. Non si era accorto di lei quindi sorrideva. Sorrideva come sua figlia non gli aveva visto fare da almeno dieci anni. Porno. Un porno con il nonno. Ci voleva questo allora per farlo contento. Non una badante, ma una ba…

Poi Lara ha volto lo sguardo sul davanzale esterno della finestra. C’era una teglia enorme di pizza. Una torta di mele. Un pollo. E il vecchio forno Petronilla messo a raffreddare sul tavolo di pietra ai lati del cortile.
Lara è tornata dentro. Consuelo stava smanettando con il tablet. Lara si è accesa una sigaretta. Ha aperto il frigo, per cercare qualcosa di fresco da bere. Consuelo in quel momento ha alzato gli occhi dal tablet e sorridendo le ha detto: «Segnora, mancano uovi in prigo per pritata. Segnor nonno piace pritata».

Hai capito? Mi dice Lara, accendendosi un’altra sigaretta. Era tutta una roba di effe. Il porno era un forno. «Beato te – ripete – che sei un linguista e avresti capito subito».
Già, annuisco. Beato me. Ma toglimi una curiosità: come mai il tuo vecchio era così contento per quattro cibi cotti al forno? E poi, scusa, se Consuelo era capace a dire “fatto” sarà stata capace anche a dire “forno”…

Lara smette di bere la sua birra e mi guarda con un’intensità che non promette niente di buono. Nelle pupille di Lara, un vecchio stravecchio beffardo sorride. 

sabato 26 agosto 2017

Il nostro cane quotidiano

Agosto. Le badanti vanno in vacanza - almeno per un po'. E così a ridosso di ferragosto è toccato a me portare a spasso la mia mamma. Spingere la sua carrozzina per le strade della periferia. I viali sono assolati in agosto. Quest'anno poi è più caldo che mai. Il più caldo della storia umana. E in questo caldo qualcuno ha pensato di sfrondare le chiome degli alberi più ombrosi.
Mia madre ripete cento volte al giorno che la vita è uno schifo. Da quando hanno tagliato le chiome delle piante lo ripete venti volte in più. 120 volte al giorno.
Meno male che c'era un cane.

Non so quanto tempo sia durato il cane. È comparso una sera, d'improvviso, nel viale che porta al ricovero dove mia mamma va a messa quasi tutti i giorni. Un bel cane, con il pelo lustro. Un pastore tedesco con un pedigree non tanto puro. Forse con un po' di sangue levriero. Il mantello aveva una base crema tendente al rossiccio, con il dorso nero.

Mia mamma dalla sua carrozzina l'ha subito notato - nota tutto lei, anche i più insignificanti oggetti lungo la strada. Figuriamoci se si lasciava sfuggire il cane. «Non sembra abbandonato» - mi ha detto mentre la spingevo lento e stanco ai bordi del viale. E invece a me sembrava di sì. Lo si vedeva da come sfuggiva al contatto con gli esseri umani. Da come attraversava di corsa la strada, guardingo.

L'abbiamo visto ogni giorno per almeno una settimana. Mia mamma gli si era affezionata, anche se lo vedeva solo per qualche momento. Malediceva meno la vita, forse una decina di volte in meno - soltanto perché incontravamo il cane.
Così io pregavo che continuassimo a incontrarlo. «Dacci oggi il nostro cane quotidiano».

Una sera ha provato a chiamarlo. «Argo!». Non so come le sia venuto in mente di chiamarlo così. Ma il cane, dall'altra parte della strada, si è fermato. Ha drizzato le orecchie e ha iniziato a scodinzolare. Anche mia madre ha voluto fermarsi, di qua, dall'altra parte del viale. Il cane la guardava, fiducioso. Poi qualcuno dal giardino di una villa gli ha tirato una pietra. È sparito correndo a fianco del campo sportivo. L'ultimo ricordo che ne ho è una macchia di colore in fondo al muro scrostato del campo.

Due giorni dopo mia mamma, che era sul terrazzo, mi chiama. Indica una signora ferma sotto il terrazzo di casa sua, intenta a parlare con un'altra donna. La signora stava parlando di un cane morto, investito da un'auto. Un cane abbandonato. Una bella bestia. Ma morta, ormai.

Di un incontro possibile non è rimasto niente. Solo un'altra assenza, cristallizzata nel ricordo.
La carrozzina sul viale non si fermerà più. Non per parlare a un cane.


mercoledì 16 agosto 2017

Nonne sull'orlo di una crisi di nervi

Ok, montagna. Unica occasione di ferie: un giorno sulle Alpi piemontesi. Un paese che non dico - e che non è il mio. Sono lì con un amico alle sette di mattina. Un amico che vedo una volta l'anno e che è amico lo stesso. Saliamo su per circa 1000 metri di dislivello fino quasi a quota 2000. Ce la prendiamo comoda. Parliamo poco, ma ci capiamo lo stesso. Camminiamo per tre ore e mezza.
Ne è valsa la pena. La giornata è bella, il panorama fantastico. Qualche foto - malriuscita. Come fotografo faccio pena. Mangiamo un panino e riprendiamo la via della discesa.
Ma tutto questo non interessa a nessuno.

Quando siamo di ritorno nel nostro paese di partenza sono quasi le due di pomeriggio. Prima di salire in macchina ci riposiamo un po' sulle panche in piazza. Vicino alla fontana. Con in mano la borraccia.
In questa piccola piazza di paese. Deserta. Solo una manciata di auto parcheggiate ai bordi.

C'è un bambino. Avrà cinque o sei anni. Pantaloni corti rossi. Canottiera blu. Sandali ai piedi. Pedala avanti e indietro in bicicletta, senza rotelle. Velocissimo. Troppo veloce. Cerca il sole, sembra che ne insegua i raggi.

Da una delle case in ombra esce una vecchia. Cammina un po' storta. Ma va veloce anche lei.
Si avvicina al bambino e lo chiama per nome. Amos!

Il bambino nemmeno la guarda, continua a correre con la bici. Zigzaga fra le auto. Fa la gimcana tra le panchine. Dove siamo seduti noi, sì, stanchi stravolti e forse anche un po' penosi: ma lui nemmeno ci vede. Ha altro per la testa.

Aaaaaaaaaaaamos! La nonna - perché quello deve essere, la vecchia: la nonna di Amos - arranca per la piazza, con una mano appoggiata sull'anca destra e l'altra che cerca di afferrare nell'aria degli invisibili fili.
Come se Amos fosse una marionetta. Bisogna solo tirare il filo per fermarlo.

Ma il filo non si trova. La nonna urla ad Amos che non deve lasciare solo suo fratello Elia. Dov'è Elia, si può sapere.
Amos senza fermare la corsa le urla: non sono mica il guardiano di mio fratello.

Io seduto sulla panchina ho un sussulto. La borraccia mi sfugge di mano.

La nonna non si scompone, invece. Torna alla carica. Che fine ha fatto - urla - tuo fratello?
Elia sta giocando - grida il bambino, mentre sfiora una Panda parcheggiata davanti alla chiesa.
Poi si lancia contro un cane comparso all'orizzonte, in direzione del cimitero.

La nonna si appoggia entrambe le mani alle anche. Gonfia il petto e lo sgrida. Non mi rispondere così, Amos!
Aaaaaamos...

Ma Amos è sparito. Anche il cane è sparito. La piazza piomba in un silenzio irreale. Poi si sente un guaito. Il lamento di un cane. Laggiù, verso il cimitero.
La nonna è sola in mezzo alla piazza. Batte ritmicamente con le mani sulle anche. Tormenta le tasche del suo scamiciato a fiori. Viola e nero, con qualche chiazza di rosso. Chissà cosa cerca, in quelle tasche.

Poi si gira verso di noi. Sospira, alza entrambe le mani al cielo. Ed è al cielo che si rivolge. Urla: che testa di cazzo. Riferito al bambino, ovviamente.

E ovviamente noi torniamo in città.



domenica 6 agosto 2017

La badante giusta

Nel corso di questi due anni molte sono le badanti che si sono date il cambio ad assistere mia mamma. Molte quelle che si sono fermate appena qualche giorno. Moltissime poi quelle che abbiamo incontrato solo per qualche ora, giusto il tempo di una fugace conoscenza. Non riesco più a ricordarle tutte.
Ma una mi è rimasta impressa. Aveva saputo che stavo cercando una badante e mi ha telefonato per presentarsi. Ci siamo messi d’accordo: va bene stasera? Perfetto. Fissiamo ora e luogo: 19.30 a casa di mia madre.
Con voce un po’ rauca la avviso che forse mia madre è un caso difficile. Non l’avessi mai fatto. La ragazza – dalla voce mi sembra giovane, e adesso anche stizzita  – dice che «non celai anziana difficile, celai solo badante giusta. Io badante giusta».
Non oso dire più niente. Deglutisco e le dico ciao. Non le chiedo neanche come si chiama e di che nazione è. Tanto è quella giusta.
Arrivano le 19.30. È estate, fa caldo. La candidata badante arriva. Elegante, ma sportiva. Bionda, giovane, simpatica. A mia mamma piace subito. Ci ritiriamo a discutere in studio e le propongo il contratto. Accetta subito, tutto a posto. Sorrido, Cominciamo domani, ok? Ok.
Poi però si gira. «E quello che cos’è?». Indica un vistoso attrezzo meccanico che occupa mezzo studio.
«Quello è un montascale a cingoli – le spiego didattico – devi usarlo per fare scendere mia mamma…».
La vedo accigliarsi. Si aggiusta i braccialetti di legno che porta alla sinistra. Si tocca il naso. Si siede sul divano. Posa le mani sulle ginocchia. Mi guarda.
«Po-possiamo provarlo subito» - azzardo. Lei non dice niente ma fa segno di sì con la testa. Stacco il montascale dalla presa di corrente, lo accendo con la chiavetta e comincio a portarlo verso il vano scale. Lei mi segue, osserva e fa domande.
Carichiamo la carrozzina con mia mamma e cominciamo a scendere. Prima che siamo arrivati al primo pianerottolo, la «badante giusta» ha già un colorito piuttosto pallido. Non arriveremo mai in fondo con lei. Comincia a mettersi le mani nei capelli e a urlare.
«Ma cosa c’è?» le chiedo.
«Io vedo signora morta. Troppo pericoloso».
«Ma se so farlo persino io…» .
«Certo. Tu uomo. Addio».
E fugge verso corso Italia, sempre urlando.
Torna, però, dopo alcuni minuti. Quando ormai siamo fuori anche noi in strada e il montascale non le fa più paura. Mi ignora, tanto «io uomo».
Parla con mia madre e le dice che se vuole verrà a trovarla. Parla dolce, con tenerezza.
Mia madre nemmeno la guarda. Però le urla: «Scì ch’o m’òn fä a mi. Sta-t-òn a ca toa, tërdòca…».
E fa bene mia mamma ad usare il violese.

Nemmeno so di che nazione sia, la «badante giusta».  

mercoledì 2 agosto 2017

La cura...

...e non è la canzone di Battiato. Solo l'inizio di una serie di post. Potendo, ne scriverò uno ogni tre giorni. Sempre sullo stesso tema: la cura.
Da anni, a vario titolo, curo mia madre. Adesso ha ottant'anni. Dal 2015 non riesco più a curarla da solo. E dal 2015 mia madre è assistita da due badanti. Una per il giorno, una per la notte.
In due anni questa assistenza mi è costata tantissimo, in termini economici.
Ma mi ha dato l'occasione di vivere esperienze umane di ogni tipo. In questi brevi post cercherò di fare il punto su queste esperienze. Per piangere. Per ridere. Per riflettere. Perché non tutto vada perso. Per condividere, semplicemente.

martedì 28 febbraio 2017

LiberoLupo: Ruby ruba alla Coop

LiberoLupo: Ruby ruba alla Coop: Quando sente che qualcuno apre la porta, Rubirosa Myrolho detta Ruby accenna un passo di danza.  Rischia di rovesciare la minest...

Ruby ruba alla Coop





Quando sente che qualcuno apre la porta, Rubirosa Myrolho detta Ruby accenna un passo di danza. 
Rischia di rovesciare la minestrina al latte, ma cade solo qualche goccia. 
La signora Esther è già seduta a tavola di là in sala; e non si accorge di niente. 
«Ecco tua minestrina, signora» dice Ruby con una specie di inchino. Intanto deposita delicatamente sul tavolo della sala la tazza con il manico a forma di gallina.
La porta d’ingresso nel frattempo viene chiusa. In corridoio echeggiano passi da uomo.

«Ueh, Manila, come va?». Ruby non fa in tempo a rispondere, che già la signora si è intromessa. Alla signora dà molto fastidio che il fratello saluti la badante prima di lei.
«Amos, ma basta, ma ses-to torna sì? Sei già passato ieri. La glicemia è a posto. Puoi anche andare…».  Amos non risponde. Posa la sua borsa da medico sul pavimento e si avvicina alla sorella per darle un bacio sulla guancia. La sorella sorride e si porta trionfale alla bocca la sua prima cucchiaiata di minestrina al latte.

Il sorriso della signora è il segnale di via libera. Ruby torna in cucina canticchiando What do you mean. Piano, però, per non farsi sentire. Il dottor Amos odia Justin Bieber. Forse perché la sua nipotina tredicenne ama Justin Bieber più di quanto ami lui? Chissà.
La nipote del dottore si chiama Rebecca. A Ruby piace Rebecca. Hanno gli stessi gusti, anche se a dividerle ci sono almeno venticinque anni di vita. Ma all’una come all’altra Justin Bieber sembra bellissimo. E tutt’e due vanno pazze – ma pazze proprio – per le Pringles.

Ruby apre il dépliant della COOP che la signora ha mollemente adagiato sulla sedia vicino al frigo, durante una delle sue peregrinazioni in sedia a rotelle lungo l’intero perimetro interno della casa.  Ruby parla tagalog e inglese, e  italiano poco poco; ma la sua conoscenza della lingua è tale da permetterle di capire senza ombra di dubbio che le Pringles alla COOP sono in offerta – e solo per oggi. La COOP chiude alle otto. Guarda l’orologio a muro appeso in cucina. Segna le 18.55. Ce la farà senza problemi. Deve solo sperare che il dottore decidadi fermarsi a cena e le dica…

«Manila, se vuoi puoi andare. Sto io un po’ con Esther. Ma tu fa’ attenzione. Sei ancora ingrassata. Hai seguito la mia dieta bilanciata?».
Ruby fa segno che sì, l’ha seguita «per pilo e per senior», disse. Il dottore la guarda un po’ stranito, poi muove la mano destra come a scacciare una mosca immaginaria.  Ruby sorride. Meglio andare prima che qualcuno cambi idea. Tutti molto strani, gli italiani di quella famiglia.
«Ciao» dice Ruby e il dottor Amos ricambia il saluto con il consueto «Ciao, Manila». Per qualche misteriosa ragione da italiano il dottor Amos si rifiuta di chiamarla Ruby. 

Del resto, che importanza ha? È ancora in tempo per le Pringles. Esce dal condominio,  si avvia nel buio del viale e raggiunge l’angolo destro della stazione. Il pullman che va alla COOP è lì ad aspettarla. Sale, paga, si siede e si addormenta. Sogna città piene di gente. Mangrovie e immondezzai. Adolescenti seminudi su sgangherati motorini. Intorno grattacieli e montagne e foreste. Poi riapre gli occhi. Ha un leggero mal di testa. La gente sta scendendo dal pullman. Nel buio del piazzale le luci della COOP.
Saluta l’autista del pullman. Le risponde una specie di grugnito.

Sul piazzale il freddo e la nebbia. Dentro la COOP però si sta bene. È caldo, luminoso. Le lunghe file dei carrelli le chiedono un euro per lasciarsi staccare dal gruppo e accompagnarla. Ma Ruby ha deciso di comprare solo pochi tubi di Pringles e non deve cedere al loro invito. Sceglie un carrello di quelli piccoli, quelli che si lasciano prendere per mano senza chiedere nulla in cambio. 
Parte diretta in sua compagnia verso lo scaffale delle patatine. Meta, il settore Pringles. Nella pancia del carrello finiscono due tubi di Pringles classiche, due di Pringles hot and spicies, due di Pringles onion sour. Ruby deglutisce. L’acquolina le sta invadendo la bocca. Rischia di affogare. Decide quindi di allontanarsi dalla tentazione e salpare verso la cassa, senza fermarsi in altri pericolosi porti intermedi. 

E mentre va verso la cassa, una scena attrae la sua attenzione. C’è un uomo – ma è proprio un uomo? – con una lunga coda di capelli grigi. Vestito con il camice dei magazzinieri, sta sistemando delle cose in una vetrina. Non è brutto, anche se vecchio. Ruby ne è attratta perché sembra un adolescente invecchiato di colpo, senza mai essere stato un uomo. Si muove un po’ come una donna e intanto sistema gli oggetti nella vetrina. Quando cammina davvero ha passi pesanti come il dottor Amos.

Ruby guarda gli oggetti che l’uomo prende da una specie di scatola rosa e mette nella vetrina. Tutti anelli. Bellissimi. A lei piacciono tanto gli anelli. Ce n’è uno che le piace più di tutti, è d’oro con una gemma rossa sopra. Una pietra che in inglese si chiama ruby – proprio come il suo nome. Una profonda nostalgia delle Filippine la invade nel vedere quell’anello. Pensa a cosa direbbe sua cugina Consuelo nel vederla tornare con quell’anello al dito. Ma il suo pensiero è subito distolto da uno squillo. La suoneria di un cellulare. Non è il suo: lei ha come suoneria Treat you better di Shawn Mendes, mentre questa suoneria sembra una marcia di guerra. Il magazziniere con la coda grigia estrae uno smartphone dalla tasca e si allontana di qualche passo per rispondere.

Ruby si guarda intorno. Non vede nessuno. L’anello con il rubino le sta facendo segno di avvicinarsi perché deve dirle qualcosa. In tagalog, probabilmente. Lei obbedisce. Lo guarda, lo stuzzica un po’ con la punta del dito, lo accarezza sulla sua piccola pancia tonda. Poi improvvisamente l’anello senza dire una parola le si attacca al dito, così, come un insetto dispettoso; e lei cerca disperata di staccarlo, sfregandolo contro il giubbotto. Finalmente ci riesce. L’anello cade nella tasca del giubbotto. E ci si perde dentro. Ruby si volta verso il magazziniere con la coda. Sta ancora parlando. Anche l’anello le sta parlando. Le sta dicendo che lì nella tasca si trova benissimo. Lei intanto si è già avviata verso le casse. C’è una cassiera bionda con il naso adunco come il becco di un corvo. Le fa segno di passare, senza sorridere. Ruby si accorge di non avere più l’acquolina in bocca. La barca dei pensieri è in secca adesso. Un’unica immagine si staglia all’orizzonte: una donna filippina di mezza età arrestata dai Carabinieri italiani per il furto di un anello di inestimabile valore.

Le sue orecchie sono pronte al suono della sirena. Prende tremando le Pringles e le deposita sul nastro. La cassiera le fa passare, chiude il conto e le dice il prezzo. Ruby tira fuori il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans. Il portafoglio le cade a terra. Si china, lo raccoglie. Paga. Non suona niente. Non ci sono sirene. Né guardie. Né niente. Solo i soldi sul ripiano della cassa. Prende il resto e saluta la cassiera, che dice ciao e si alza quasi subito, chiudendo il cassettino degli incassi.


Ruby si allontana veloce con la sua borsa di carta di riso. Sorride. I Carabinieri sono spariti dal suo orizzonte. Sul mare calmo del suo cervello naviga adesso un veliero maestoso al cui timone sta Justin Bieber. Un Justin enorme che, a torso nudo, con le dita cariche di anelli, sta masticando soddisfatto le Pringles.